Memorie di Di Marco Giacomo classe 1900 – un ragazzo di Pietratagliata

LE CONDIZIONI DI PROFUGO IN FRIULI ALLA VIGILIA DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE, E LE MIE AVVENTURE

Infanzia e giovinezza – 1914 –

“”Con l’assassinio del Principe Ereditario al trono dell’Impero austriaco, scoppiarono delle ostilità tra l’Austria e la Serbia. Tutto lasciava capire un futuro incerto anche per l’Italia.

L’80 per cento dei nostri operai della regione veneta emigravano in Germania, Austria, Ungheria e Romania; per circa un 30 per cento come boscaioli, il resto come muratori.

Da un momento all’altro, Germania ed Austria chiusero le frontiere alla nostra emigrazione, rallentando in modo forte anche gli scambi commerciali; tutto ciò a causa della situazione poco chiara del nostro governo che non voleva pronunciarsi sul futuro.

La chiusura delle frontiere causò una grande disoccupazione; anche la situazione economica in conseguenza si faceva precaria, tenuto conto che gran parte della popolazione della nostra zona viveva con i guadagni degli emigranti.

Ricordo che per far fronte a questa situazione, parte dei nostri boscaioli trovarono lavoro in Carnia, esattamente a Forni Avoltri, La Mauria e Sappada.

Tra l’altro, incominciarono manifestazioni irredentiste per Trento e Trieste, manifestazioni nelle scuole superiori, dimostrazioni di piazza contro l’Austria

Fin dalle scuole elementari ci insegnavano, con i libri di storia, che l’austriaco era stato il nostro dominatore; anche gli scolari delle elementari erano a conoscenza difatti come i Carbonari, i fratelli Bandiera, Silvio Pellico, le Cinque Giornate di Milano, Mantova e Custoza.

Come potremo vedere più avanti, Dio mette al mondo delle persone buone, coscienti, laboriose e responsabili delle loro azioni, consce che siamo esseri uguali anche se di colore o di nazionalità differenti. Purtroppo fra i tanti, ci sono anche quelli dei quali la storia ha dovuto occuparsi molto per i fatti di sangue contro popoli da loro considerati più arretrati e più deboli.

La storia ci insegna che per queste persone (chiamiamoli dittatori – conquistatori – liberatori o come vogliamo); il titolo appropriato è Criminali.

Sapendo che Dio ci ha dato il lume della ragione e il dono della parola, ciò potrebbe bastare per risolvere qualunque problema. Io, in vita mia ho bastonato una sola persona (un indigeno in Africa), ma si trattava di salvare un suo simile che già non aveva più la forza di difendersi. Io non potevo-farmi capire nella sua lingua, di conseguenza, anche per mia difesa ho dovuto dargli una bastonata in testa.

Anche gli animali lottano fra loro, ma non si uccidono mai fra la stessa specie. Come mai noi questo non lo abbiamo ancora imparato?

Il proverbio dice: “Contro la forza ragion non vale”; di conseguenza, contro questa forza bisogna contrapporre altra forza per difendersi e sopravvivere.

Torniamo al 1914, perché nello stesso anno entrò in guerra anche la Germania contro la Serbia e con questa intervennero l’Inghilterra, la Francia e il Belgio contro la Germania e l’Austria. Pochi mesi bastarono alla Germania per occupare il Belgio e mezza Francia. In questo frattempo, anche l’Italia fu costretta a prendere una decisione, violando il suo patto di alleanza con l’Austria e schierandosi con i Franco-Inglesi contro i Tedeschi.

Verso i primi giorni del maggio 1915 arrivarono i primi nostri soldati.

Mi trovavo in un prato di fronte alla strada nazionale quando vidi venire una compagnia di militari, che probabilmente erano venuti in treno fino a Chiusaforte e poi a piedi, per prendere posizione sulla nostra frontiera. Curioso come tutti i bambini, mi recai di corsa sulla strada nazionale ed arrivai da loro esattamente al passaggio a livello di fronte a Pietratagliata.

Era una Compagnia del 1ͦ Alpini, Battaglione “Mondovì”, guidati da un tenente e da un sottotenente.

Erano molto giovani, già presentivano la guerra, ed imprecavano contro i nostri ministri Salandra e Somnino Contro l’uno perché non aveva la forza di opporsi all’altro.

La Compagnia fece un riposo sul viadotto Rio Suàlt, cioè tra il passaggio a livello ed il sottopassaggio della nazionale con la ferrovia. Proprio in vicinanza al sottopassaggio si staccavano due sentieri di montagna: uno che va al monte Slenza ed uno che va al monte Pocét, attraversando il fiume Fella.

Io avevo fatto solo la quarta elementare, ma rimasi meravigliato che i due giovani ufficiali discutessero tra loro su quale sentiero prendere.

Carta geografica alla mano non riuscirono a mettersi d’accordo, e chiesero a me quale era il monte Pocét. Oltre a saperlo per pratica, non avevo sprecato il tempo a scuola, per sapere che, per trovare le posizioni di destra e di sinistra, si segue il corso dei fiumi. Per la verità rimasi meravigliato perché loro non sapevano questo.

Intanto erano arrivati altri miei compagni e tra noi parlavamo in- dialetto; i soldati ci ascoltavano sorpresi perché non capivano nulla. Uno disse all’altro: parlare “tudesco”.

Passò un’altra settimana senza altre novità; a quei tempi, le persone che leggevano i giornali si contavano sulle dita. Davano uno sguardo al “Giornale del Friuli”, a l’ “Amico Del Contadino” o la “Vita Cattolica”, il settimanale “La Domenica del Corriere” ed “Il Corriere dei Piccoli.”

A Pietratagliata, solo tre famiglie li comperavano. Si viveva alla buona, ogni famiglia pensava e si dedicava anche a sacrifici, procurandosi solo lo stretto necessario.

Per la verità, considerato il poco movimento di truppa, tutti speravano che Dio tenesse lontana la guerra.

Il nostro esercito aveva sotto le armi sei classi: dal 1890 al 1895.

Le più anziane già avevano fatto la guerra della Libia, per conquistare all’Italia una grande superficie di deserto e poche centinaia di arabi poltroni e analfabeti.

C’era solo la speranza di fare emigrare colà parte della nostra mano d’opera, esuberante sul suolo patrio.

Dio solo può sapere quante furono le preghiere di tante madri, affinché tenesse lontano il flagello della guerra.

Purtroppo, un terribile disastro incombeva su popoli e nazioni.

Il 22 maggio 1915, al mattino, dalla stazione di Pontebba partì un treno merci con gli uomini al di sopra dei 18 anni. Nel pomeriggio partì un altro treno sempre con vagoni merci, e con il resto della popolazione.

A Pontebba non restò nessuno.

Così fu per Pietratagliata, dove il treno si fermò al passaggio a livello e raccolse gli abitanti della frazione, circa 400 persone. Avevano dovuto abbandonare tutto, salvo qualche vestito raccolto in casa alla rinfusa. Restava il problema di come salvare il bestiame; solo la nostra frazione (Pietratagliata) aveva più di 200 mucche, oltre a capre, pecore, maiali, galline e conigli che, se abbandonate, sarebbero, andate perdute; di conseguenza ogni famiglia dovette occuparsi di salvare il suo bestiame. Della mia famiglia rimasi io, e per la famiglia di un mio zio che si chiamava Marco, restò mio cugino Domenico.

Sul far della sera vedemmo venire il branco del bestiame degli abitanti della frazione dei Piani e da Pontebba. Quello delle frazioni di Studena e Aupa fu evacuato verso Moggio, per il Passo Cereschiattis.

La mia famiglia aveva tre mucche più una capra; mio zio altrettanto. Quelle della frazione Piani erano circa cinquanta, condotte da sette-otto persone.

Fortuna volle che ancora non vi fosse movimento di truppa e la strada nazionale quasi libera; l’ordine era di evacuare solo Pontebba e frazioni, perciò alcune famiglie si fermarono a Dogna, altre a Chiusaforte e Resiutta. A Moggio rimasero molte famiglie di Studena Alta, Bassa ed Aupa. Buona parte arrivò sino a Gemona.

Anche la mia famiglia fu ospitata a Gemona, nella casa di campagna di una signora oriunda della nostra frazione e parente di una mia zia.

Nella prima settimana alloggiarono in 4 stanze più cucina, 5 famiglie (circa 30 persone), poi, come Dio volle, restarono solo tre famiglie.

Il compito assegnatomi era di guidare il bestiame fino a Gemona.

Partimmo sul fare della sera, verso le 16, con passo moderato per non stancare le bestie, ma ci fermammo solo a Moggio che dista da Pietratagliata circa 20 chilometri.

Qui, al fianco della nazionale, si trova uno spiazzo ampio, adiacente ad una cascata d’acqua; lo spiazzo era sufficiente per tenere le bestie raggruppate e fuori strada. Tutti, del resto, avevamo bisogno di riposare.

Verso l’alba ripartimmo ed arrivammo alla stazione per La Carnia che già faceva giorno. La capra, camminando sul fondo stradale di sabbia e ghiaia, aveva consumato, le unghie tanto che aveva difficoltà a proseguire. Attraversando un passaggio a livello, la donna che faceva da guardia notò la povera bestia che belava dal dolore ad ogni passo. Chiamò suo marito e vennero ad informarsi se volevo vendere loro l’animale. In principio fui titubante, per paura che i miei genitori mi sgridassero e non accettai ma essi pero mi seguirono per un chilometro raddoppiando l’offerta, tanto che finii per cedere.

Mi dispiaceva staccarmi da un animale cui ero affezionato, che dava tre litri di latte al giorno e che avevamo avuto in regalo da un nostro parente dimorante in Austria.

Verso la sera dello stesso giorno arrivammo a Gemona; le bestie non ne potevano più dalla stanchezza: avevamo percorso 41 chilometri in 14 ore.

Come Dio volle ricoverammo gli animali in una stalla di fortuna. In seguito, le nostre bestie le demmo a due famiglie di Artegna, dietro compenso di un pò di formaggio.

Così passò giugno, luglio e agosto; mio padre, che allora aveva 44 anni, aveva trovato lavoro come capo boscaiolo con la ditta Cozzi di Tolmezzo. La ditta lavorava a Moggio; in località Campiolo, per il taglio di legna da ardere per la truppa. Anche mio fratello maggiore di 19 anni era occupato con mio padre.

Sino alla metà di settembre non ci furono scontri fra i belligeranti e le Autorità Militari davano permessi per recarsi nella zona evacuata onde raccogliere qualche cosa del rimasto e trasportarlo con i propri mezzi, cioè con carrette a due ruote trainate personalmente. Ricordo di aver fatto, tra il mese di giugno e luglio, tre viaggi.

Non si sentiva una fucilata, tanto che le Autorità permisero a diverse famiglie (ma solo alle donne o ai bambini di una certa età) di ritornare al paese per il taglio del fieno, che poi l’Esercito avrebbe comperato.

In questo frattempo erano giunte ai fronti altre truppe, precisamente un battaglione di fanteria e due batterie di artiglieria: una da 75/mm ed una da 145/mm prolungata. La prima era sistemata in località “Prat dal Spic”, l’altra nelle “Braiducis” con due pezzi, e due pezzi sul “Cuel da la tee”. I nostri avevano fatto qualche tiro sul territorio austriaco, ma loro ancora non si erano fatti vivi.

Verso gli ultimi di luglio, mia madre decise di andare anche lei a tagliare il fieno e mi condusse con sé.

Sul luogo si trovavano diverse famiglie. Ricordo che stavamo falciando l’erba nel prato soprastante la casa attuale, che allora non era stata ancora costruita, e a un tratto sentimmo uno sparo da grande distanza, proveniente dal territorio austriaco, poi uno scoppio di granata sopra la ferrovia a sud di San Rosso e verso Pietratagliata. A poco a poco allungarono il tiro fino quasi al Ponte di Muro; più o meno saranno stati 40 scoppi di granata, ma di piccolo calibro. Mia madre si spaventò in modo tale che non ne volle più sapere di fieno e ritornammo a Gemona.

Da questo momento non rilasciarono più permessi.

Al fronte si svolsero alcuni combattimenti, tra cui uno in Valle Dogna con morti e feriti della nostra zona. Si sparse subito una notizia esagerata sul numero dei morti; i feriti sarebbero stati trasportati negli ospedali con treni di passaggio da Gemona all’ora X. Per caso, mio fratello Luigi, il cugino Domenico ed un certo Albin Mici si trovavano alla stazione di Gemona al passaggio del treno e poterono constatare che non erano tanti.

Sentiti esprimersi in questo modo da un sergente degli alpini nativo di Dordolla (Moggio), questi li denunciò ai Carabinieri di servizio, che li portarono in caserma per interrogarli. Saputo che erano nativi di Pontebba, zona di confine, li considerarono come spie o persone pericolose; li trattennero per pochi giorni in caserma, poi li internarono a Marsala, in Sicilia, in un campo di concentramento, in compagnia di triestini fuggiti all’ultimo momento da Trieste per venire in Italia, magari con l’idea di prestare servizio nell’Esercito Italiano.

Il Governo, a quei tempi, non passava sussidi alle famiglie dei profughi che dal loro Comune erano considerati benestanti. La nostra famiglia, di otto persone, doveva vivere solo con il guadagno di mio padre.

Da parte mia, ogni mattina fino a settembre, mi presentavo dai contadini che lavoravano la terra della padrona, e mi offrivo come aiuto nel lavoro dei campi; in questo modo mi guadagnavo il cibo, aiutando in qualche modo la famiglia.

Un conoscente di mio padre di nome Ilario Vidoni, aveva trovato lavoro per una squadra di operai per lavoro di taglialegna da ardere. Tra questi finii incluso anche io ed un mio cugino; si lavorava a cottimo sezionando ed accatastando sul posto tronchetti di faggio in ragione di Lt. 1,50 al metro stero.

A turno io e mio cugino dovevamo anche provvedere all’acqua per bere e al trasporto della polenta dal Casone al posto di lavoro. Gli operai ogni giorno cambiavano posto è con tutto questo riuscivano a tagliare ed accatastare circa cinque metri steri ciascuno, con un guadagno Lt. 7,50 al giorno. Il vitto era a carico del padrone, la polenta a volontà, un chilogrammo e mezzo di formaggio, più mezzo chilo di lardo, per i sette giorni della settimana. Menù invariabile: polenta e “frico”, al mattino; polenta e formaggio a mezzogiorno; polenta e frico con patate la sera. Queste si compravano a parte e servivano come contorno. A quell’età io digerivo anche i sassi.

La località dove lavoravamo era sul monte Amarianna, sopra Tolmezzo, confinante con il Comune di Moggio. Qui lavorammo fino a metà novembre del 1915. Da questa data a tutto marzo 1916 passammo a lavorare sul monte Strabut che si trova esattamente sopra Tolmezzo.

Nel aprile 1916 ritornammo sul Monte Amarianna con due squadre di operai: mio padre aveva il compito di guidare i lavori.

Parte dei nuovi operai erano dei paesi vicini a Tolmezzo, cioè di Amaro, Illeggio, Imponzo, Fusea. Appartenevano all’esercito ed erano di classi anziane: li chiamavano “esonerati” e dovevano eseguire i lavori per scopi militari; tra questi, tre erano di Imponzo.

Parlando del più e del meno venimmo a sapere che in questo paese c’era una signora proprietaria di molta campagna, con il fittavolo che, per mancanza di personale, non poteva più far fronte ai lavori e di conseguenza doveva abbandonarla. In questo frattempo, mio fratello Luigi, che si trovava internato in Sicilia, venne chiamato alle armi con la sua classe ed arruolato nei 7° Bersaglieri di Verona.

Mio cugino, che pure si trovava internato, venne rilasciato, e si unì pure lui a mio padre.

La nostra famiglia si trovava sempre a Gemona, così purè la famiglia di mio zio Marco, e tutti senza occupazione. Il Governo non pagava sussidi, perché le nostre famiglie erano considerate benestanti.

Il prezzo dei generi alimentari stava aumentando ed era sempre più difficile chiudere il bilanciò mensile in attivo.

Mio padre pensò bene di visitare quella fattoria agricola, più per curiosità che per altro, ed una domenica si recò sul posto. Dopo aver preso visione della campagna, che si trovava nelle vicinanze del paese, ne rimase entusiasta ed entrò in trattative con il proposito di affittarla. La proprietaria accettò la richiesta e fissò il prezzo in Lt 1.000 annue, più altre condizioni che mise per iscritto. Restò fissato che ne saremmo entrati in possesso nella primavera del 1917.

Intanto la guerra diventava una guerra di posizione; i due eserciti si erano trincerati in attesa che qualcuno attaccasse per primo.

Fra le tante novità, si videro anche i primi aeroplani, che a bassa quota venivano a curiosare nelle retrovie.

A Cavazzo Carnico vi era un campo di aviazione di fortuna: in diversi posti avevano installato mitraglie, e batterie antiaeree per tenere lontani gli apparecchi nemici.

Alla Stazione della Carnia si congiungevano la linea Udine-Pontebba e la Società Veneta Carina-Villa Santina, e più o meno vi erano dei treni sempre in movimento. 

 

Gli austriaci in diverse occasioni avevano notato tutto questo, con le loro incursioni che erano quasi settimanali. Allora le nostre antiaeree si fecero sentire: gli aerei a quei tempi volavano sotto i mille metri e di conseguenza le granate erano graduate per scoppiare a quella quota. Era quindi pericoloso restare allo scoperto quando vi erano degli apparecchi in giro.

Io, a quei tempi, ero il più giovane tra gli operai, e dovevo fare la provvista d’acqua con una piccola botte di 15-20 litri. La portavo sulla schiena, ed un bel giorno, durante un’incursione mi trovai a metà strada e allo scoperto; di tutta corsa mi diressi verso una pianta che era nelle vicinanze per proteggermi dalle pallottole che fischiavano intorno. Quando credevo di essere al sicuro, mi sentii bagnare il sedere e riscontrai che l’acqua zampillava dalla piccola botte.

Slacciai le bretelle e presi in mano la botticella, ma dovetti constatare che questa era stata passata da parte a parte da una pallottola.

In questa occasione gli aerei austriaci erano tre ed avevano sganciato anche delle piccole bombe sopra la Stazione della Carnia.

Dal piccolo campo di aviazione di Cavazzo si alzò un nostro aereo che riuscì a raggiungere l’ultimo aereo nemico quando questo rientrava alla base.

Dopo diverse scariche di mitraglia, vidi quello austriaco sussultare e perdere quota in forma anormale. Era stato colpito il pilota e il serbatoio; visto che non avrebbe potuto raggiungere la sua base, il pilota fece un atterraggio disperato sul greto del torrente Chiarso nelle vicinanze del fiume But, nei pressi di Cedarchis. Quando vi giunsero i nostri, l’apparecchio era sfasciato è il pilota morto.

Ed ora torniamo a parlare del lavoro.

Come già dissi, le squadre degli operai erano due: una che tagliava solo piante di abeti e larici, l’altra legna da ardere. Delle due squadre, diversi operai erano impiegati allo sboscamento; altri alla preparazione del fondo stradale che sarebbe servito per il trasporto dei tronchi con slitte trainate da buoi durante l’inverno. I tronchi erano portati alla stazione di carico della teleferica: questa aveva la stazione sul versante del monte Amarianna – lato Moggio – e la stazione di arrivo ai Rivoli Bianchi, nelle vicinanze di Tolmezzo.

Da diversi anni mio padre soffriva allo stomaco i medici dicevano che aveva una dilatazione, e in quell’estate soffriva più che mai. Per di più aveva anche la preoccupazione di essere richiamato per il servizio militare, quantunque avesse 45 anni. Fece ricorso anche per la situazione di famiglia, avendo a suo carico otto persone, sette figli più la moglie. Venne quindi esonerato.

Intanto anche mio fratello minore, Andrea, di soli 13 anni, che a Gemona aveva ultimato il quarto grado elementare era venuto con noi in montagna ed era addetto ai servizi della cucina.

Nei mesi da settembre a novembre i tronchi erano stati accatastati nelle vicinanze delle sedi stradali. Venne novembre con le prime nevi; in una sola volta ne cadde più di un metro. Giunse Natale e Capodanno l916-l7; si sospesero i lavori per 15 giorni, sia per passare le feste in famiglia, sia sperando che il freddo si calmasse: invece peggiorò. Quando, in gennaio, tornammo al lavoro, vi erano oltre 5 metri di neve.

Si lavorava in condizioni impossibili e tutti gli operai protestavano e volevano abbandonare il campo.

La Ditta Cozzi, che aveva l’appalto dei lavori, aveva chiesto alle Autorità Militari la loro sospensione, ma questa fu negata per urgente e continuo bisogno di legname, richiesto dalla truppa. Di conseguenza, fu giocoforza affrontare le condizioni climatiche, con un freddo intenso che qualche giorno toccava anche i 26 gradi sotto zero. Si lavorava solo 6 ore al giorno, con produzione ridotta al minimo.

Era il giorno 27 gennaio, di lunedì, e io ero con quattro operai adibito al carico dei tronchi sulle slitte; le piante erano state accatastate durante l’autunno nelle vicinanze delle strade e le cataste erano coperte da uno strato di neve alto 5 metri.

Da uno spiazzo libero i tronchi si caricavano sulle slitte trainate dai buoi, e trasportate sino alla stazione di carico della teleferica.

Mi vien fatto di pensare che ognuno di noi abbia il destino segnato fin dalla nascita.

Verso le 10 del mattino mi venne riferito che il titolare della ditta desiderava avere una comunicazione telefonica con mio padre, alla stazione di carico. A mezzogiorno ne parlai a mio padre, il quale pensò che io e lui avessimo cambiato lavoro. Io sarei passato al suo posto che era più distante, lui sarebbe andato al mio che era vicino al carico della teleferica.

Della catasta dei tronchi che si stava caricando non rimanevano che pochi pezzi ed il lavoro per estrarli fu molto difficile per la pressione della neve. Poiché del mucchio non restavano che pochi tronchi, dispose che tre operai si recassero a sgombrare la neve su un’altra catasta. Sul posto rimase lui con un solo operaio; doveva estrarre l’ultimo tronco, ma visto che l’altro non ce la faceva, volle provare lui stesso. Entrò sotto questo tetto di neve, diede un colpo con un maglio al tronco, ma ciò bastò perché l’enorme massa nevosa lo schiacciasse con il suo peso. L’operaio che lavorava con lui si mise a gridare chiamando aiuto. Alle grida accorsero altri operai, che cercarono con ogni mezzo di salvarlo. Purtroppo non c’era più nulla da fare: il peso della neve lo aveva letteralmente schiacciato.

Io, dalla disperazione non ragionavo più, e gli operai furono costretti ad accompagnare di notte fino a Tolmezzo me e mio fratello Andrea, che aveva solo 14 anni.

Alla stazione di arrivo della teleferica la notizia della disgrazia arrivò prima di noi due. Qui si trovava l’amico del nostro povero padre, che ci portò a casa sua, dove passammo la notte.

Il giorno dopo, con il primo treno, accompagnati dalla moglie del signor Vidoni, partimmo per Gemona, per portare a nostra madre la grave notizia. La povera donna intuì la disgrazia e svenne dal dolore. Vedova a 44 anni, con sette figli a carico, profughi di guerra e con poche risorse economiche, un figlio in servizio militare è in piena guerra: questa era la nostra situazione.

Ci aiutarono i nostri parenti, ma con tutto ciò restavano otto bocche da nutrire e la più piccola aveva cinque anni.

La Società Assicuratrice provvide in breve tempo ad assegnare le quote spettanti ai singoli eredi, ma dato che tutti eravamo minorenni, le somme erano vincolate fino alla maggiore età. Disponibile era solo la quota spettante a nostra madre.

Lei, affranta dal dolore, non poteva rassegnarsi, e su di me cadde il peso della famiglia, che seppi portare con rassegnazione.

Non volli più ritornare su quel lavoro, ma non potevo restare disoccupato.

La famiglia aveva bisogno di mangiare e allora mi rivolsi al mio padrino di battesimo, anche lui capo boscaiolo sul monte Corno (comune di Avasinis). Con lui lavorai fino ai primi di maggio.

In giugno dovevano iniziare i lavori agricoli, nella tenuta, contratta da mio padre alla fine di dicembre. Io e mia madre considerammo opportuno anche economicamente trasferirci nella tenuta. Considerato però che mia madre, io e due mie sorelle non bastavamo per lavorare tanta terra, proponemmo allo zio Marco di associarsi con noi. Loro potevano prestarsi in tre: lui e due cugine.

Così, tutti d’accordo, ci trasferimmo da Gemona ad Imponzo.

Noi avevamo ancora tre mucche, più una di mio zio, e un po’ alla volta avevamo ritirata da Pietratagliata tutta la masserizia agricola, compresa una caldaia di rame da 200 litri e la zangola. Da Gemona a Tolmezzo avevamo noleggiato due vagoni ferroviari per il trasloco delle masserizie e del bestiame.

La guerra continuava stazionaria ovunque, salvo nella zona carnica, al Passo Monte Croce, dove le Guardie di Finanza avevano ceduto; anche sull’Isonzo stavano combattendo duramente con pochi progressi.

Mio fratello Luigi, dopo il periodo di istruzione, fu mandato al fronte nell’altopiano di Asiago, dove restò ferito da una scheggia in fronte; una pallottola gli lasciò una cicatrice ad un orecchio nonché una ferita ad un ginocchio, e tutto questo solo dopo pochi giorni di trincea.

Così eravamo arrivati a metà maggio 1917 e ci trovavamo già nella tenuta agricola con un mucchio di lavoro: pulizia e concimazione dei prati, vangatura e semina dei campi, lavori di falciatura e raccolta dei foraggi, pulizia e sarchiatura dei campi. Nella frazione avevano un bel locale, anche ben attrezzato, per la lavorazione del latte, ma per mancata fiducia nel casaro e negli amministratori, i soci avevano chiuso il locale ancora prima che arrivassimo noi.

La nostra produzione di latte, giornaliero, era di oltre 50 litri: perciò iniziammo la lavorazione in casa nostra con i nostri mezzi. Ma, un po’ alla volta dovemmo accettare anche il latte di molte famiglie della frazione, di modo che dovemmo lavorare il latte ogni giorno e anche dopo cena, per non perdere tempo durante la giornata.

Fu un’estate molto bella e la campagna aveva reso bene; frutta, granoturco e patate in quantità. Di castagne ne avevamo una soffitta piena. Il raccolto di quelle che si trovavano in montagna era provvisoriamente nei fienili o in cantina; formaggio e burro non mancavano, e con questo non avevamo più preoccupazioni per l’inverno entrante.

Come un fulmine a ciel sereno venne la disfatta di Caporetto. L’offensiva tedesco-austriaca aveva travolto il nostro esercito e c’era un fuggi fuggi generale.

Mutò anche il tempo: pioggia, a non finire giorno e notte e tutti i fiumi erano in piena.

Un’altra volta dovemmo abbandonare tutto. Io decisi invece di restare e tentare di salvare il salvabile. Con la partenza sarebbe stato tutto perso.

Con le bugie persuasi mia madre e mia zia a partire con le sorelle e il fratello minore. Avevo promesso loro che sarei partito il giorno dopo e con la bicicletta avrei fatto più presto. Ma anche questa era una bugia e fu un dolore vederli partire con la gerla sulla schiena, piena di viveri e di qualche vestito.

Per loro fortuna, imboccarono la strada più breve da Tolmezzo per Villa Santina – Ampezzo – Tramonti – Maniago – Aviano – Sacile – Conegliano Susegana. Qui passarono il Piave quasi all’ultimo momento. Altri non fecero in tempo e furono costretti a riprendere la via del ritorno.

A Treviso caricavano tutti questi profughi sui treni; mia madre ed i miei fratelli furono portati fino in Sicilia, esattamente ad Acireale, mentre invece la famiglia di mio zio andò a finire in Valtellina, a Morbegno.

Due giorni dopo la partenza delle famiglie arrivò mio cugino Domenico, quello che era stato internato in Sicilia come sospetta spia. Era stato riformato perché aveva i piedi piatti e di lui l’esercito non sapeva che farsene, perché non poteva camminare a lungo. Mio cugino invece sapeva correre come una lepre: Decidemmo quindi di restare insieme, per salvare il salvabile.

Intanto era sopraggiunto l’inverno.

Passarono alcuni giorni, ma il nemico non si era ancora visto.

Avevano sfondato a Caporetto e, superato il Tagliamento, erano arrivati al Piave. Qui la piena del fiume ed i coscritti del “99 li fermarono.

Da noi apparvero dopo diversi giorni.

Una mattina, mentre stavo mungendo, li vidi comparire sulla porta della stalla: erano due ed uno era slavo.

Vide un coniglio, si mise ad inseguirlo, ma inciampò contro un badile e cadde, sporcandosi la divisa. L’altro, che non era tanto spavaldo, rideva stando sulla porta. Intanto il coniglio si era nascosto sotto una mangiatoia, e così poté salvarsi. I due se ne andarono a mani vuote, ma però dopo aver svaligiato la cantina della padrona.

Nella stalla avevamo cinque mucche, due scrofe, ed eravamo noi due soli. Mio cugino non sapeva mungere, non sapeva lavorare il latte e quindi fare tutto questo toccava a me; lui si occupava della pulizia della stalla e di altri lavori in casa.

La seconda sera, dopo la partenza di mia madre, non sapevamo dove mettere il latte; avevamo riempito tutti i recipienti disponibili ed era giocoforza fare il formaggio.

Io, da bambino, durante le vacanze andavo in malga, dove un mio zio faceva il casaro, e avevo visto più o meno come si faceva, e volli provare. Era già notte quando misi la caldaia con il latte sopra il fuoco, per portarlo alla temperatura voluta. Non avevo però il termometro per la misura del calore.

Dopo aver preparato una dose approssimativa di caglio, misi la mano dentro il latte come faceva mia madre e quando credetti che la temperatura fosse giusta, misi il caglio e ritirai il latte dal fuoco. In attesa cenai con mio cugino, ma in trenta minuti il latte non si era coagulato. Dopo avere atteso un’ora e mezzo, dissi: “Giacomo, come facciamo?” e preparai un’altra dose di caglio, dubitando che quello usato non fosse stato sufficiente.

Scaldai un’altra volta il latte e rimisi un’altra dose. Ancora nulla.

Intanto era venuta mezzanotte e noi non sapevamo come risolvere la situazione; mandai tutto al diavolo, ricordando il proverbio: “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. Al mattino seguente, quando mi alzai, il latte era cagliato.

Per il momento lo lasciai tranquillo, perché prima dovevo pensare a mungere le mucche; fatto questo ritornai al mio formaggio.

Si trattava di rompere la cagliata con uno strumento che si chiama “chitarra”. Lo si fa girare nella caldaia in modo da ridurre la cagliata in piccolissimi frammenti, poi si riscalda il tutto un’altra volta, si rimescola ancora e si lascia riposare per un quarto d’ora. Si leva quindi il formaggio per metterlo nel cerchio e sotto la presa per purgarlo dal siero.

Data la mia inesperienza, non era sicuro che fosse riuscito bene; se era immangiabile lo avrei dato agli austriaci.

Dalle truppe di occupazione non avevamo avuto ancora né noie né sorprese.

Avevano affisso dei manifesti con ordini severi: ogni persona doveva presentarsi ai loro Comandi per avere un documento che attestasse una persona censita. Tutti i proprietari di bestiame dovettero denunciare il numero e la specie dei capi di bestiame, nonché altre merci commestibili.

Io e mio cugino denunciammo il meno possibile; parte delle patate le nascondemmo in una fossa scavata nella stalla: formaggio, granoturco e fagioli in un fienile.

Il problema serio era di essere in due e in età pericolosa per noi. In caso di requisizione di personale ci saremmo nascosti, ma poi chi avrebbe guardato la casa, governato il bestiame e tutte le altre faccende?

Io sapevo che nel paese di Terzo di Tolmezzo, di fronte ad Imponzo, si trovavano diverse famiglie di Studena Bassa è in una di esse, alcuni parenti di mia madre. Non vedendo altra via d’uscita pensai a loro. Io personalmente non li conoscevo; sapevo i loro nomi per averli sentiti da mia madre.

Così un bel giorno riuscii a rintracciarli.

Subito ci mettemmo d’accordo. La loro situazione non era facile: erano marito e moglie sui 60 anni, con un figlio militare. Accettarono entusiasti la mia proposta e il giorno stesso vennero da noi con le loro poche masserizie. Anche questo problema era risolto.

A loro bastarono pochi giorni per adattarsi al nuovo ambiente e sbrigare i lavori di casa. Parlavano correttamente la lingua tedesca e questo era un vantaggio per noi, quando gli austriaci facevano il censimento degli uomini.

Io e mio cugino fummo dei primi a presentarsi, di modo che ci assegnarono una occupazione in paese: mio cugino come guardia campestre, io come guardiano notturno in una stazione di teleferica, che veniva da una segheria sulla destra del fiume But.

Dalla parte di Imponzo si trovava una linea ferroviaria a scartamento ridotto fatta dal genio ferrovieri italiano e che serviva per il trasporto di truppe, merci, da Tolmezzo a Timau. In questo periodo serviva agli austriaci per trasportare il prodotto della segheria; il mio compito non era grave, perché a quei tempi pochi erano quelli che andavano in giro la notte, e la merce da custodire non interessava nessuno.

Così a mezzanotte me la squagliavo a casa per dormire nel mio letto.

Da notare che per questo servizio non avevo paga, ma solo un documento comprovante la mia occupazione ed un bracciale che mettevo quando tirava aria cattiva. Più o meno in quindici giorni avevamo organizzato un po’ tutto.

Nella borgata non vi era sede fissa per truppa o polizia. I responsabili erano il Pùrgermeister (sindaco) e le guardie campestri.

Saltuariamente qualche pattuglia di passaggio o qualche gruppo di soldati isolati che andavano in cerca di scambio merci per vivere, offrivano zucchero, tabacco, sigarette e scarpe in cambio di burro e formaggio. La nostra stalla distava dalla casa circa 150 metri, e un giorno alcuni soldati forzarono le porte per prelevare una giovenca. Mio zio se ne accorse e corremmo a protestare per il furto. Per nessuna ragione essi lasciarono la bestia e dopo molte insistenze mi diedero un pezzo di carta scritta a matita, ma indecifrabile per noi. Ricordo solo che era firmata “Codil Mayer” bel leggibile. Il giorno dopo corsi a Tolmezzo, al Comando, e feci vedere quella ricevuta; il Comando ci mise sopra un timbro con altra firma. A me dissero: “Paga Cadorna”.

Questo avveniva ai primi di dicembre del 1917. Tutti i negozi erano chiusi, non si trovava più nulla da comperare, i generi alimentari erano spariti e la popolazione era preoccupata per la scarsità dei viveri.

In casa nostra era un andirivieni di gente in cerca di cibo. Avevamo pieno il granaio di castagne, grandi quantità di patate ed anche granoturco in più del bisogno. Decidemmo quindi di vendere una parte; era meglio sfamare la nostra gente piuttosto che consegnare i frutti del nostro lavoro al nemico invasore.

Sul corso della guerra non si sapeva nulla, solo che i tedeschi erano stati fermati al fiume Piave.

I grandi depositi di viveri abbandonati dal nostro esercito erano stati svaligiati un po’ dalla popolazione e un po’ dal nemico; già da molto tempo il loro popolo e anche il loro esercito era a razione, con viveri molto ridotti.

A poco a poco cominciarono anche le requisizioni, prima con il bestiame, poi con i viveri, grassi e formaggi. Di questi ne trovarono pochi anche perché era facile nasconderli, ma così non era per il bestiame.

Alla prima requisizione dovemmo consegnare due capi, ma anche in questa occasione cercai di salvare qualche cosa. Trovai nel paese due persone che avevano giovenche di poco peso e feci cambio, dando loro una certa quantità di latte in cambio di un animale. Valutai il loro valore con l’accordo di regolare i conti in futuro.

In seguito, gli austriaci diedero inizio alla requisizione di rame e bronzo e tolsero dalle chiese quasi tutte le campane.

Ricordo che nella chiesa di San Florian (una delle più antiche della Carnia, che si trova a metà strada fra Imponzo e Illegio), tolsero le campane, facendole cadere verso il pendio della montagna. Da queste non ricavarono che pochi pezzi, essendosi rotte nella caduta.

Gli austriaci requisirono pure utensili di rame e di ferro, ma la popolazione, avvertita. si diede da fare per nascondere le cose migliori. Avevamo una grande caldaia ove si lavorava il latte e questa per noi era indispensabile. Trovai nel giardino una vecchia fossa per calce spenta vuota, e pensai che questo era il posto adatto per nascondere la caldaia. Dovevamo naturalmente lavarla e rimetterla nella fossa, e questo trucco durò sino alla liberazione.

Quando lavoravo sul Monte Amarianna avevo conosciuto diversi operai della borgata Stavoli (Comune di Moggio), e anche loro sapevano che mi trovavo in frazione di Imponzo. Gran parte dei cereali furono venduti a loro, in cambio del loro aiuto peri lavori di campagna in primavera.

A Moggio gli austriaci avevano un campo di concentramento per i prigionieri di guerra. Qualcuno riusciva a fuggire rifugiandosi in montagna: erano chiamati “lupi della Carnia” e vivevano con il poco cibo che potevano trovare fra la popolazione. Dormivano negli stavoli delle montagne e sul far della notte scendevano alle abitazioni per avere un po’ di cibo.

La campagna che noi lavoravamo aveva, verso il monte, un muro alto circa due metri e questo muro distava dieci metri dalla stalla. Un giorno mentre andavo al fienile, sentii chiamare: “giovanotto! “; mi guardai in giro ma non vidi nessuno, e mentre riprendevo il cammino sentii ancora “giovanotto!”. Allora guardai più attentamente e al di sopra del muro vidi due uomini. Sapendo che non vi erano pattuglie in giro, mi avvicinai a loro; erano stanchi sfiniti e stavano per cadere. A mani giunte mi chiesero un po’ di cibo. Io li rassicurai che non c’era pericolo, perché nella borgata non c’erano austriaci; li feci entrare nella stalla e diedi loro del latte. Mi dissero che avevano passato quattro giorni senza cibo ed erano scappati dal campo di concentramento di Moggio; la neve li aveva sorpresi in una malga e qui avevano dovuto fermarsi quattro giorni; aspettando che finisse di nevicare. Uno dei due era veronese, di Sant’Ambrogio in Valpolicella, e restò con noi fino alla liberazione. L’altro era piemontese e non ricordo più il suo nome. Questo si fermò con noi solo una quindicina di giorni. Accogliendoli in casa nostra correvamo un grande rischio, ma volevamo salvarli ugualmente.

Vicino alla stalla vi era la casa della proprietaria; tutta la famiglia era scappata. Nel loro giardino c’era una costruzione in muratura che serviva da legnaia ed io, mio cugino, e i due prigionieri spostammo una catasta di legno per fare posto a due materassi su cui passare la notte. In breve tempo questi si rimisero un po’ in forza. Il veronese, che si chiamava Riccardo, appena gli fu possibile ci diede una mano nei lavori di casa o della stalla. Ma stava sempre all’erta e il minimo pericolo fuggiva nel suo nascondiglio. Tutta la popolazione del resto passava la voce quando sapeva che vi erano austriaci in vista.

Più della ‘metà degli abitanti’ erano profughi in Italia e non vi erano probabilità di aiuti per i lavori della campagna. Mio zio e mia zia avevano già oltre 60 anni, ed anche con tutta la loro buona volontà, non potevano aiutarci più di tanto. Decidemmo quindi di prendere per aiuto due ragazze della borgata Stavoli di Moggio.

Si doveva dare inizio ai lavori di pulizia dei: prati, poi alla concimazione, vangatura e semina nei campi. Allora, non esisteva la meccanizzazione: si doveva lavorare dall’alba al tramonto. Per fortuna il tempo fu benigno ed i lavori procedettero normalmente.

I pochi abitanti di Pietratagliata, che non erano riusciti o non avevano potuto fuggire prima dell’invasione, nella primavera del 1918 erano rientrati alle loro case. Le loro condizioni erano precarie; case e stavoli semi-distrutti, niente bestiame, morale depresso. Privi di ogni notizia dall’Italia libera, tutte le famiglie, avevano dei figli, fratelli o padri alle armi; ma nessuno aveva notizie di loro.

Si trovavano inoltre, senza sementi per i loro campi e non sapevano come risolvere la situazione.

Da Pietratagliata alla borgata dove noi ci trovavamo, vi è una distanza di 40 chilometri attraverso le scorciatoie di montagna, per la strada nazionale vi sono 50 chilometri, che a stomaco vuoto non si possono fare. Le mogli dei miei cugini, che si chiamavano Angela ed Ester, ebbero il coraggio, con la gerla sulla schiena, di affrontare questa distanza per andare in cerca di semine per i campi. Arrivarono da noi, che era quasi notte, sfinite dalla stanchezza e dalla fame; in questo loro primo viaggio si portarono a casa granoturco, patate e fagioli per oltre 60 chili. Noi avevamo pure dei maialini da latte ed esse ci chiesero di riservarne uno per il prossimo viaggio. Così fecero; senza pensare ai disagi è contando di nutrire i maiali allo stato selvaggio, cioè con sole erbe, o, sottoprodotti del latte.

Passò così la primavera ed i primi mesi d’estate, senza gravi conseguenze.

I campi promettevano bene, il taglio del primo fieno era fatto. Mi venne l’idea di fare una scappata fino al paese natio e verso i primi di agosto mi misi in cammino, dopo aver messo nel sacco da montagna un po’ di farina per la polenta un po’ di lardo e un po’ di formaggio Fino alla Stazione della Carnia andai a piedi e da qui andai alla stazione ferroviaria, dove riuscii a salire su un treno ospedale di passaggio. Passata Resiutta, una guardia si accorse della mia presenza e mi impose di scendere, alla prima stazione.

Visto che mi teneva d’occhio scesi a Chiusaforte ma con il proposito di risalire al lato opposto della stazione. Così feci, chiudendomi in una toilette, ma, dopo poco sentii muovere la maniglia della porta. Io non fiatavo, ma un minuto dopo la porta si apriva, ed il soldato che mi aveva imposto di scendere era. di fronte a me; mi prese per lo stomaco e mi diede uno schiaffone e mi fece capire che ci pensava lui a farmi scendere alla prossima fermata. Alla stazione di Dogna il treno tirò dritto, ed io, sempre guardato dal militare, giunsi alla vecchia stazione di Pontebba.

Il militare aprì la porta, mi fece scendere, mi prese per un braccio e mi consegno ad una guardia non so cosa gli disse ma la guardia mi porto in un ufficio e chiamarono una interprete. Mi tolse il sacco da montagna per vedere cosa conteneva. Per fortuna avevo con me la carta che mi avevano rilasciato come guardia notturna. Ebbero un momento di esitazione; poi mi lasciarono andare.

Pontebba era quasi deserta, con più soldati che civili. Tutte le case erano inabitabili, ma a Pietratagliata a poco a poco erano già, rientrati buona parte degli abitanti. Vivevano in condizioni molto precarie, nutrendosi con minestre di verdure e latticini. Le case erano in condizioni pietose, con tetti mezzi rovinati, senza porte, con pavimenti in gran parte asportati per costruire baracche in alta montagna. I profughi che per lo più si trovavano tra Chiusaforte e Resiutta, nei primi tempi furono obbligati ad abitare anche in case estranee, in attesa di poter riparare le loro.

Solo chi ha provato può rendersi conto a quali sacrifici dovettero sottostare e nello stesso modo dovettero adattarsi anche quelli che rientravano a guerra finita senza aiuti e senza compensi.

Parte dei danni subiti furono risarciti molti anni dopo, tramite il cosiddetto Ministero delle Terre Liberate.

Nel primo viaggio che feci per visitare il mio paese natio, io e il mio compagno GioBatta Macor eravamo i due unici maschi della frazione della classe 1900, contro otto femmine. Di buon mattino ci mettemmo in cammino per andare a vedere la zona del fronte, che dopo tre anni di guerra non si era mosso di un metro. Potemmo osservare una fossa continua dalla Sella Veneziana fino alla Malga Bieliga che serviva come trincea, quasi la maggior parte coperta. Sul pianoro “Cret di Burie” c’erano delle gallerie per cannoni di medio calibro e sul cucuzzolo della valle, postazioni per batterie da montagna. Parte di detti cannoni, fatti esplodere, si trovano ancora sul posto.

Tante baracche in muratura e legno; sembravano un villaggio. Mitragliatrici, fucili, granate, bombe a mano in quantità erano sparse ovunque. Facemmo il giro del monte Iouf, e ritornammo a casa dal versante Mincigòs, piuttosto stanchi.

All’indomani passai di casa in casa per salutare le poche famiglie che vi si trovavano e feci anche una sciocchezza, comprando due rivoltelle: una da Guido Macor ed una grossa dal vecchio Zibet.

Il giorno dopo mi misi in cammino per ritornare in Carnia, seguendo strade secondarie per non avere brutti incontri, dato che avevo con me le due rivoltelle. A Moggio imboccai la strada di montagna che da Campiolo passa dalla Borgata Stavoli-Sella d’Agnò, Illegio ed infine Imponzo: 40 chilometri in tutto.

Arrivai a casa senza incidenti. Mi raccontarono che gli austriaci si erano accorti che la frazione dava alloggio e da mangiare a diversi prigionieri. In una retata ci cascò anche quello che viveva con noi, ma non si perse di coraggio, anzi rischiò la morte e fuggi in montagna. Gli avevano anche sparato dietro, ma mancarono il bersaglio. Stette in montagna per quindici giorni e noi gli portavamo da mangiare in un angolo del cimitero dove lui ritirava il cibo, e dormiva in una grotta sulla montagna.

Come Dio volle, ebbi la prima cartolina dall’Italia: mi aveva scritto mio fratello Luigi, tramite la Croce Rossa svizzera. Mi faceva sapere che tutta la nostra famiglia si trovava in Sicilia e precisamente ad Acireale.

Gli austriaci, che si erano accorti che molti prigionieri italiani stavano nelle montagne vicine, di conseguenza si vedevano più spesso le loro pattuglie in giro. A mia zia che parlava bene il tedesco, un soldato aveva lasciato capire che avevano intenzione di internare tutti gli uomini di giovane età. Lui stesso mi consigliò di farmi vedere il meno possibile.

Per quattro giorni gli austriaci fecero un continuo rastrellamento. Questi giorni li passai pure io in montagna assieme agli altri.

A turno, durante il giorno, uno di noi munito di binocolo osservava i loro movimenti; la notte però non andavano in giro. Approfittavano del buio per rifornirsi di viveri. Tra noi e le famiglie c’erano dei segni convenzionali per sapere quando le pattuglie erano in paese. Se vi era pericoloso, da una finestra di casa nostra esponevano un lenzuolo e lo ritiravano quando il pericolo era cessato.

Una domenica io ero sporco e bagnato, e siccome il segnale di pericolo non c’era, mi azzardai ad andare a casa. Per prima cosa mi lavai e cambiai i vestiti, poi andai in cantina per prendere del cibo. Avevo in una mano un pezzo di polenta e nell’altra del salame e stavo andando verso la porta quando sentii dei passi con scarpe chiodate. Guardai dalla porta e vidi un soldato; persi la testa. Buttai via polenta e salame, mi tolsi la rivoltella dalla tasca e gliela mostrai. Il soldato fece un dietro front immediato e se la diede a gambe. Io a mia volta, a perdifiato, presi la strada della montagna maledicendo il nostro sistema di segnalazione.

Il giorno dopo tutto era tranquillo e la segnalazione era di via libera.

Molto guardingo andai a casa; mia zia che era stata presente il giorno prima ed aveva assistito alla scena, quando mi vide si mise a ridere e mi disse: “Poveretto! che spavento gli hai fatto! Tu non lo sai, ma io avevo trattato con lui per farti avere un paio di scarpe ed in cambio gli davo del formaggio che voleva portare a casa. Così sei rimasto con le sole tue scarpe vecchie”.

Pochi giorni dopo il militare ritornò con le scarpe e mia zia combinò l’affare; così io ebbi le calzature nuove.

Con questo arrivammo ai primi di settembre; da tempo facevamo la polenta con farina mista a patate. La scorta era quasi esaurita e mia zia non sapeva a quale santo votarsi per risolvere il problema della polenta fino al nuovo raccolto.

Da tempo sapevo che diverse donne del paese si erano recate in Friuli per acquistare viveri in cambio di altre cose e poiché mia zia era anziana e non poteva compiere un viaggio del genere, decisi io di arrischiare la sorte.

La zia mise nel sacco da montagna due pani di burro e mezza forma di formaggio, mi diede la benedizione e mi disse “Dio ti aiuti”. Così Giacomo si mise in cammino, senza sapere dove avrebbe potuto fare il cambio.

Andai a piedi fino alla Carnia e strada facendo pensai di passare da dei contadini di Gemona che conoscevo da profugo, con la speranza di poter trovare qualche cosa.

Il caso volle che al bivio della Carnia con la Pontebbana incontrassi un uomo e due donne. Diedi loro il buongiorno e la donna mi chiese se non avevo paura che mi fermassero, visto che pochi giovani erano liberi. Entrai così in conversazione e spiegai il motivo della mia passeggiata. Quando seppero che avevo burro e formaggio, mi dissero che ben volentieri mi avrebbero dato il loro granoturco. Abitavano a Pozzuolo, e a quei tempi la strada nazionale passava a pochi passi dalla stazione ferroviaria. Proposero quindi di fare il viaggio in treno almeno per parte del percorso.

Ricordando quanto mi era successo, io non avevo nessun entusiasmo, ma loro mi assicurarono che nel tratto Udine-Carnia non avevano avuto noie, anzi non avevano neppure pagato il biglietto. Tornavano a casa dopo aver visitato il figlio, prigioniero nel campo di concentramento di Moggio.

Andammo alla stazione ferroviaria e un ferroviere ci assicurò che avremmo potuto salire su un merci. Dopo una mezz’ora passò un treno e vi salimmo.

A Gemona, il treno si fermò quasi un paio di ore, ed in questo tempo io ebbi occasione di vedere come viveva la loro truppa. Incrociammo una tradotta dei loro soldati: potei notare che il loro rancio consisteva in una grande porzione di minestra con contorno di verdura e di pezzetti di carne. Il loro morale era basso; non erano più spavaldi come quando entrarono e dicevano “Nach Venedig” o, addirittura “Nach Rom”.

Quando Dio volle, anche il nostro merci si rimise in moto e sulla tarda sera arrivammo a Udine. Per proseguire non vi era altro mezzo che le proprie gambe.

Non sapevo quanti chilometri distava Pozzuolo da Udine, ma pensai che se l’avevano fatta i miei compagni, potevo farcela anch’io, e così anche se con passo lento, ci mettemmo in cammino.

Intanto si fece notte, ed a un certo punto loro presero una scorciatoia ed entrarono in una casa, per riposare un poco. Non mancò il boccale del vino ed anch’io ne bevetti un paio di bicchieri.

I miei compagni di viaggio raccontavano agli altri in quali condizioni si trovavano quei poveri prigionieri, con vestiti a brandelli, affamati e demoraliz-zati.

Dopo questa tappa ci mettemmo nuovamente in cammino e piano piano arrivammo a Pozzuolo. Qui giunti mi dissero che mancavano ancora pochi chilometri: i contadini, infatti, abitavano in una frazione.

Come Dio volle arrivammo a destinazione: un caseggiato molto grande, con il consueto sottoportico, tettoia per i carri agricoli; una vera e propria fattoria.

Si radunarono tutti per sentire le novità e subito dopo apparecchiarono la tavola per la cena, consistente in polenta, una grande terrina di radicchio e un po’ di salame. e del formaggio. I miei compagni prima vollero togliersi le scarpe e farsi un benefico bagno ai piedi. I miei piedi, intanto, continuavano a litigare con le scarpe ed io non potevo fare nulla per loro, poiché ero in casa d’altri e non era bello chiedere rimedio. Per fortuna una ragazza si accorse delle mie sofferenze, senza dir parola mi porse un paio di pantofole dicendomi: “Si tolga anche lei le scarpe e si metta queste; non abbiamo di meglio, sono quelle di mia mamma”. Io la ringraziai e mi parve di essere in Paradiso.

Durante il giorno avevamo fatto solo uno spuntino, perciò io sentivo anche fame e mangiai quindi con molto appetito. Come d’uso, il boccale del buon vino era sul tavolo, pronto, naturalmente anche per me. Dopo un boccale ne venne un altro, e giunse pure altra gente per sapere le novità.

Credo che fosse già passata la mezzanotte e un po’ per il vino e un po’ per a stanchezza, incominciavo a sbadigliare, ma loro insistevano che bevessi, dicendomi che il vino era genuino e che non faceva male.

La ragazza che mi aveva dato le pantofole, un tipo allegro, si sedette vicino i me dicendomi: “Stia attento che se non vuota quel bicchiere di vino le do tanti pizzicotti”; così mi fecero prendere una sbornia. Quindi mi accompagnarono in camera, mi misero a letto e mi svegliai solo quando bussarono alla porta e non sapendo che ora fosse. A vestirmi feci presto, perché con la sbornia mi ero dimenticato di togliermi i pantaloni e anche i calzettoni. Scesi le cale ed entrai in cucina, dove in quel momento c’era solo una donna che mi diede una scodella di latte con polenta, pane e formaggio e anche un boccale di vino. Tenuto conto però della lezione che questo mi aveva dato la sera prima, ringraziai rifiutando.

Poco dopo arrivò l’uomo che avevo conosciuto il giorno prima e con cui avevo viaggiato e con sé aveva una carriola ed un sacco di granoturco. Lo pesarono: erano 50 chilogrammi e mi dissero se ero d’accordo sul cambio. Risposi affermativamente ma tosto pensai che 50 chilogrammi erano un bel peso e che la strada da fare a piedi era lunga e pericolosa. Già avevo aperto il sacco da montagna per metterci il granoturco, quando l’uomo mi disse: “Le mando io un ragazzo, che con l’asino l’accompagnerà fino a Udine. Qui prende il treno e va fino alla Stazione della Carnia”. Mi assicurò che non c’era pericolo; nell’andata da Udine a Moggio avevano viaggiato con donne della Carnia che avevano fatto lo stesso tragitto e nessuno le aveva molestate.

Accettai così il suo consiglio.

Intanto l’asinello ed il carretto erano pronti; vi caricarono il sacco ed io, dopo averli ringraziati, montai sul veicolo. Il ragazzo con la frusta fece il segno della croce davanti all’asino e montò pure lui. Una tiratina di redini egli gridò: “Andiamo Bruno”. Compresi che l’animale non aveva fatto lavori pesanti perché si mise subito al trotto.

Il nuovo compagno di viaggio aveva anche lui girato poco il mondo; mi disse che era già stato altra volta sino ad Udine in compagnia di suo padre. Allora io pensai fra me che avevo girato più di lui, essendo stato nel 1913 fino a Fagagna, con mio cugino Domenico.

Il nostro asinello fece tutta la strada trotterellando e così arrivammo all’entrata di Udine. Strada facendo avevo chiesto al mio compagno quanti anni aveva, e mi aveva risposto 13 e mezzo, Si stupì quando seppe che io ne avevo 18.

Eravamo già in città, quando fermai una donna e le chiesi se sapeva indicarci la strada più breve per arrivare alla stazione ferroviaria. Dopo aver sbagliato diverse volte, arrivammo finalmente alla stazione. Chiesi ad un ferroviere se era possibile andare con un treno sino alla Carnia e questo mi rispose che avrei potuto salire su un treno merci, ma mi fece capire il pericolo che correvo se gli austriaci mi avessero trovato il granoturco. Un altro ferroviere mi aiutò e mi chiese di consegnargli il sacco che nascose nella cabina del treno e poi annunciò la partenza di lì a quaranta minuti. Salutai il ragazzo che mi aveva accompagnato e per ringraziarlo gli regalai un biglietto da due lire venete; poi ci lasciammo. Avendo notato varie donne che, dall’accento parevano carniche, mi accodai a loro, ritirai il mio sacco e lo misi nel bagagliaio. Dopo una fermata di quasi due ore a Gemona, il treno giunse finalmente alla Carnia.

Il più era fatto, ma restavano ancora 16 chilometri da percorrere a piedi.

Per fortuna incontrammo un carro trainato da un mulo e il conducente fu così buono da portarci fino quasi a Tolmezzo. I pochi chilometri che separano Tolmezzo da Imponzo furono per me una vera tortura. Arrivai a casa dopo mezzanotte con i piedi sanguinanti, stanco, affamato e senza il sacco di granoturco che avevo nascosto sotto un covone di fieno lungo la strada. Mi erano rimaste solo le forze per ritornare a casa, ma senza tutto quel peso. Il sacco fu raccolto il mattino dopo da una ragazza che avevamo a servizio.

Dall’altra parte dell’Italia non c’erano novità. C’era però un movimento insolito di truppa che nessuno sapeva spiegare.

A Tolmezzo c’era sempre un po’ di truppa austriaca, ma fuori, nei piccoli paesi, non si vedeva nessuno.

A Cedarchis vi erano due capannoni di legno lasciati dalle nostre truppe ed un bel giorno si seppe che si trovava costì per riposo una compagnia di soldati austriaci.

Per consumare il fieno, avevamo portato il bestiame in montagna, in uno stavolo adiacente ai campi seminati a patate. Una mattina mio zio si accorse che il podere era stato visitato dai ladri e si dubitava dei russi che gli austriaci avevano con loro per i lavori di fatica. Pensammo allora di montare la guardia andando a dormire nel fienile.

Una notte mio zio e gli altri mi svegliarono gridando: “Ai ladri!!

In tasca avevo una rivoltella, in mano un bastone da montagna. Sentivo qualcuno fra le erbe del campo, poi vidi un’ombra e a piene braccia gli diedi una bastonata. L’ombra gridò, poi un lampo, uno sparo, un altro sparo… Pensai che fossero soldati ed allora fuggii a precipizio, saltando cespugli, muri di sostegno, rotolando e camminando. Intanto in paese avevano sentito gli spari ed il genero di quel vecchio che era con me in montagna era già in piazza armato di fucile.

Cercai di dissuaderlo, dicendogli che i soldati non erano meno di cinque. Ma non ci fu verso e così anche mio cugino si unì a noi due e risalimmo la montagna nascondendoci in un boschetto proprio quando i soldati stavano per andarsene.

Tutti e tre cominciammo poi a sparare; non so quanti colpi avevo esploso, ma sentivo che la canna del fucile si faceva calda. Smisi per un momento di fare fuoco e sentii il compagno che bestemmiava perché non poteva più sparare, dato che gli era rimasto in canna il bossolo ed il fucile si era inceppato. Rimediato questo inconveniente, ricominciò a sparare. Chiamai mio cugino, ma non ebbi risposta, perché, sprovvisto di cartucce, era scappato. Poi si calmò anche il mio compagno ed allora decidemmo di battere in ritirata.

Sulla piazzetta si erano già radunate delle persone del paese, curiose di sapere quello che era successo.

In realtà, per pochi chili di patate, avevamo fatto una sciocchezza; per gli austriaci non era difficile scoprire i padroni dei campi e darci una buona lezione, magari bruciando anche lo stavolo.

A casa trovai mia zia, che piangendo stava mettendo dei viveri in un sacco da montagna. Mio cugino si era già allontanato, ed a melo zio disse: “Scappa subito e che Dio ti protegga”.

Passai dallo stavolo, presi altre cartucce e a tutta notte mi misi in cammino sulla montagna. Dormii sotto una pianta e al mattino mi spostai in un luogo da dove potevo osservare bene lo stavolo ed i campi. Per la verità ero ben pentito di avere commesso una simile stupidaggine arrischiando l’arresto.

Intanto eravamo entrati nel mese di novembre. Si cominciò a vedere movimento di truppe che rientravano in Austria e si capì subito che qualcosa andava male anche per loro.

Due giorni dopo le strade della vallata del But che passano da Timau a Monte Croce Carnico, erano ingombre di carri e di veicoli leggeri. Tutti capimmo che stava succedendo qualcosa di grosso. A nostra volta, noi, proprietari di bestiame, trovammo il modo di allontanare o nascondere il proprio.

Nella nostra affittanza vi era una delle stalle più distanti dal paese e verso sera vi portammo tutti i capi di bestiame.

Intanto sulle strade della Carnia continuava un intenso movimento di truppe austriache. Non c’era pericolo di equivoco: l’esercito era in rotta, ma la situazione locale era ancora in mano loro.

Io, ansioso, osservavo con un binocolo il ponte che attraversa il But, quando vidi un insolito susseguirsi di biciclette che attraversavano il ponte venendo da Villa Santina.

Sapendo che l’esercito austriaco non aveva truppe in bicicletta, capii subito che dovevano essere i nostri bersaglieri ciclisti. Infatti, dopo meno di un’ora venne una ragazza a confermarci la notizia.

Ci furono quelli che proposero di andare sulla strada per depredare gli austriaci, ma la maggioranza sconsigliò simili imprudenze.

Il primo a farci visita dall’Italia fu mio fratello Luigi, che ci portò notizie dei familiari e dei parenti, avendo avuto una breve licenza di 6 giorni più viaggio.

Io ero orgoglioso del mio operato: avevo salvato tutto il bestiame, tutto il mobilio e la cantina con i viveri.

La guerra poteva dirsi finita; le nostre truppe erano accantonate un po’ dovunque e i generi alimentari aumentati molto di prezzo. Per avere il latte, alle mense lo pagavano 40 centesimi al litro e noi vendevamo 20 litri al giorno.

Il nostro Riccardo, cioè il prigioniero veronese che aveva passato il periodo di invasione con noi, era ansioso di rientrare a casa sua. Durante tutto il periodo dell’invasione non aveva potuto dare notizie, in primo luogo perché era prigioniero e poi perché non sapeva scrivere.

Poiché il nostro esercito voleva raccogliere i prigionieri per fare loro la visita medica prima di mandarli in licenza, fui io che scrissi alla sua famiglia mandando sue notizie. Lui aveva deciso di temporeggiare per qualche settimana prima di presentarsi, ma per malasorte, con la liberazione era arrivata anche la “spagnola”, una febbre influenzale che durò per molti mesi, facendo quasi più morti della guerra.

Colpito dalla malattia, dovette mettersi a letto lui e le due ragazze di servizio, e poi anche mio zio. Senza medici e senza medicine c’era poco da stare allegri.

Fortunatamente io mi salvai anche senza cure preventive.

Dopo due settimane di letto il nostro Riccardo ci lasciò, per presentarsi all’Ospedale Militare di Tolmezzo, e dopo i dovuti controlli poté andare in licenza. Essendo della classe 1898 dovette ritornare al corpo, poiché non aveva diritto al congedo.

Ci scrivemmo per quasi due anni, poi non seppi più nulla di lui.

In dicembre cominciarono a rientrare dall’Italia i profughi più vicini. In questo periodo arrivò pure la famiglia di mio zio che era stata in Valtellina, a Morbegno. Mia madre, mio fratello Andrea e le mie sorelle si trovavano in Sicilia e pensarono bene di lasciar passare i mesi più freddi per evitare sbalzi di temperatura.

Anche loro ebbero la “spagnola”, anzi, le spoglie di mia sorella Lucia, che era la maggiore, sono sepolte laggiù.

Le disgrazie purtroppo si susseguivano nella mia famiglia: era già morto il padre e una sorella, e mia madre era affranta dal dolore. In febbraio, come Dio volle, arrivò anche lei, con mio fratello e le altre sorelle.

I treni non avevano orario e arrivavano quando potevano. Ricordo che la mia famiglia giunse dopo la mezzanotte e pioveva; per andare a casa vi erano sei chilometri di strada e mia madre preferì trattenersi in sala d’aspetto aspettando il giorno per mettersi in cammino. Al comando di tappa furono tanto gentili e ci diedero un camion per il trasporto fino a casa.

Verso i primi di maggio cominciai a fare i preparativi per rientrare al paese natio.

Per prima cosa bisognava riparare il tetto della casa, poi mettere porte e finestre e altri serramenti che mancavano.

Il giorno 10 maggio 1919 facemmo ritorno definitivamente con bestiame e masserizie.

A Tolmezzo avevamo avuto due carri ferroviari per il trasloco delle cose fino a Pontebba, dove un’altra volta il comando tappa ci aiutò mettendo a nostra disposizione un camion.

In due viaggi tutte le nostre masserizie e i mobili erano fuori casa.

Dopo pranzo, mentre sistemavamo i mobili e le altre cose, sentimmo uno scoppio. Mia madre diede un grido: “Andrea! “. Purtroppo era vero; lui e il suo compagno avevano trovato una spoletta di granata e l’avevano battuta con una pietra. Il proiettile era scoppiato in mano a mio fratello, asportandogli tutte le dita della mano sinistra con altre ferite alle gambe, all’altezza delle ginocchia.

In paese vi era un medico militare che, dopo avergli medicato le ferite, lo fece ricoverare all’ospedale di Tolmezzo.

lo andavo a trovarlo due volte alla settimana: a poco a poco le ferite si rimarginarono e i medici ci davano buone speranze. Stavamo camminando nel corridoio dell’ospedale quando mio fratello mi disse che un ginocchio gli faceva male. Parlai con il primario, e questo mi assicurò che avrebbe provveduto a farlo visitare ancora. Riscontrarono che nel ginocchio aveva ancora una scheggia e questa gli provocava dolori a ogni movimento della gamba.

Dovettero sottoporlo ad un’altra operazione, ma il suo destino era già segnato. Qualche giorno dopo sopravvenne la pleurite. Il primario voleva fare un nuovo intervento, ma io dissi che la decisione spettava a mia madre.

Due giorni dopo lei venne all’ospedale, ma solo per chiudere gli occhi per sempre a suo figlio.

 

Con queste ultime righe, si conclude il nostro viaggio nelle terre di Pontebba e non solo, non ci vogliono molte parole per descrivere quanto siano state preziose queste memorie, ai protagonisti, da tempo non più tra noi, va tutta la nostra gratitudine. Ai loro eredi: un grazie di cuore, per aver conservato e messo a disposizione, il dono dei loro cari.